La chiave di lettura del film di Girard sta nel titolo: la seta. Proprio a quella sensazione visiva, tattile e quasi temporale tende l’autore, in una ricerca minuziosa e perfezionista che fa di Seta una pellicola dai tempi rarefatti, soffusi, rallentati; scelta stilistica audace, che non è sostenuta da una sostanza adeguata a riempire un contenitore così pomposo e magniloquente.
Tratto da un’inconcludente storia di Baricco, il film non ha molto da dire, ma lo dice con un incredibile sforzo di mezzi e un’altrettanto inutile dilatazione dei tempi: si assiste così a un opera vuota, pomposa, che porta lo spettatore a spasso fra inutili silenzi intervallati da un abuso della voce fuori campo. Eppure l’idea di fondo è interessante perché – in un’epoca in cui la globalizzazione era un lontano miraggio – il concetto di un amore a distanze siderali, alimentato solo dal ricordo e da una segreta passione che brucia nel fondo del cuore, ha senza dubbio molto fascino. Ma lo spunto iniziale non viene suffragato da un’intelaiatura sufficiente a strutturare una storia, a farla poggiare su basi minimamente solide; tutto rimane sul piano delle idee, su un’eterea associazione di immagini e suoni già di per sé
inconcludenti,
che subiscono anche le scelte estetiche della messa in scena che, come
già detto, tende a rallentare i tempi e a sfumare i colori della
fotografia.
Così Seta risulta semplicemente un film noioso,
autocompiaciuto, che ha poco da dire, ma che ha bisogno di due
lunghissime ore per dirlo. Non aiuta nemmeno un Pitt che recita
sottotono, quasi sempre sottovoce, bilanciato a malapena da Alfred
Molina, in un ingrato ruolo di contorno: tutto lo scalpore generatosi
attorno a questo film, provocato quasi esclusivamente dalla derivazione
letteraria “baricchiana”, a conti fatti pare ingiustificato.