romanzo fantasy La profezia di Arsalon

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Sevrian osservò meglio le chiome, si avvicinò prendendo un petalo fra le mani. Due scritte dorate si intrecciavano come se volessero fondersi in un caldo abbraccio. Non conosceva i nomi degli innamorati e posò delicatamente il petalo a terra. Decise di proseguire verso casa, ma mentre camminava si sorprese a rimuginare su alcuni pensieri che da giorni gli occupavano la testa: “Perché qui l’incoronazione, e non nella città imperiale com’è tradizione da secoli? Perché scegliere una cittadina così piccola per un evento tanto importante? Non ha senso! Perché un imperatore dovrebbe venire fin qua, a farsi eleggere in una regione sperduta in cui probabilmente non tornerà mai più?”.

La versione ufficiale non lo convinceva. Non era certo per portare una ventata di novità! I membri del Gran Consiglio non potevano trovare una scusa peggiore. Eppure la gente, troppo presa dall’organizzazione, si era lasciata convincere. In fondo era una cittadina così incantevole. Perso nei suoi pensieri, Sevrian non si era reso conto di essere quasi giunto a casa. La dimora di suo padre cominciava a intravedersi sulla riva opposta del lago. Un fumo bianco usciva dal camino con sbuffi regolari, mentre il sole basso all’orizzonte dava ragione al suo stomaco: era quasi ora di cena.

Un fruscìo improvviso lo destò dalle sue riflessioni. Da un po’ aveva la sensazione di non essere solo e quel rumore confermò i suoi sospetti. Accelerò il passo, le ombre allungate degli alberi avvolgevano il bosco in un silenzio quasi spettrale. Si girò all’improvviso. «Chi è?», urlò alla foresta. «Se è uno scherzo, non è divertente!». L’eco rimbombò nell’oscurità. Cominciò a correre. La casa che prima sembrava tanto vicina pareva ora irraggiungibile. Tutto avvenne in un attimo: un’ombra uscì dai cespugli e si scagliò su di lui, scaraventandolo nell’acqua gelida. Una presa forte lo trattenne sott’acqua; una presa che lui riconobbe.

Quando la stretta si allentò, la voce irritata di Sevrian tradiva ancora la paura appena passata. «Sei uno stupido! Mi hai fatto prendere un colpo, tu e la tua mania degli agguati. Non cambierai mai!», disse Sevrian ansimando. «Tu pensi troppo, amico mio», e mentre pronunciava queste parole la figura possente di Vikrian gli diede una pacca sulla testa. Spesso non sapeva dosare la sua forza. La mole imponente lo rendeva adatto a essere ammesso nei corazzieri imperiali e lui non desiderava altro. Era molto alto e i suoi capelli ricci gli donavano un aspetto fiero, quasi selvaggio.

Il destino li aveva fatti nascere lo stesso giorno e da allora non si erano più separati. «Figlio, è ora di cena!». Il padre di Sevrian, Ghinta, uscì sul terrazzo con un mestolo in mano. La sagoma maestosa catturò l’attenzione dei ragazzi. «Vikrian! Vuoi fermarti a mangiare con noi?» «No, no grazie, mia madre mi sta aspettando». Un velo di tristezza scese sul viso dell’uomo. Sevrian non aveva più la madre. Se n’era andata. Un giorno come tanti era scomparsa nel nulla. Nella lettera aveva lasciato una sola parola: addio. Ghinta si rivolse al figlio: «Domani sarà una giornata

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