Alice Montanaro e Gianandrea Siccardi esordiscono in narrativa con il romanzo fantasy La profezia di Arsalon. Il sigillo del male

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IL PROLOGO – Sinderwood era in fermento, ogni dettaglio era stato preparato minuziosamente. Ancora poche ore e il giorno della grande incoronazione sarebbe arrivato. Un ragazzo con lo sguardo vivace, gli occhi scuri e i capelli neri come la notte si aggirava per le vie della città, sorridendo compiaciuto di fronte a tanto entusiasmo. Il suo nome era Sevrian. Nonostante le moltitudini in arrivo da ogni angolo dell’Impero, Sevrian era in grado di scorgere tra la folla tanti volti familiari.

Per l’occasione Miranda aveva addirittura abbandonato il suo adorato mulino per dedicarsi completamente al rinfresco. La sua energia non si era mai spenta e il tempo l’aveva appena sfiorata. Era identica a come Sevrian la ricordava da bambino. Il viso, ancora tondeggiante e luminoso, mostrava solo qualche ruga in più e le guance conservavano intatte il loro antico rosso vermiglio. Solo i piccoli ricci grigi, che uscivano dalla cuffietta di candido pizzo, tradivano il passare degli anni.

«Largo, giovanotto!», urlò una voce grave alle sue spalle. Si batteva contro quell’appellativo dai tempi della scuola quando tutti gli adulti lo chiamavano così, e più tenacemente ci provava, più dure erano le sue sconfitte. Quando poi aveva a che fare con Beorg, il fallimento era assicurato. Era arrivato alla locanda di Sinderwood una notte d’inverno di molti anni prima, infreddolito e farneticante. Nessuno era riuscito a scoprire il suo passato.

«Allora, ce l’hai fatta a addomesticare il tuo asino, Beorg?» «Certo, il mio Toc è una brava bestia e poi io ne ho il completo controllo». Al passaggio di un carretto di libri, Toc disarcionò il suo padrone e partì all’inseguimento. Il tonfo sordo della caduta fece trasalire un nano impegnato a inchiodare gli ultimi drappi purpurei ai balconi con il suo martello da fabbro. Armistad era uno dei pochi nani che non metteva piede in miniera e si occupava dell’armeria della città.

«Solito vecchio pazzo!», disse Armistad con il consueto tono infastidito. «Solo il tuo asino può essere così ghiotto di carta!». Avendo il sentore di un imminente battibecco, Sevrian si diresse a passo spedito verso la porta della città. Nonostante gli elfi avessero abbandonato il luogo da molto tempo, rimanevano ancora i segni del loro passaggio e quell’arco, simbolo dell’entrata a Sinderwood, non finiva mai di meravigliare il ragazzo.

«Come avranno fatto?», si domandava di fronte ai due maestosi ciliegi le cui chiome, intrecciandosi, formavano una splendida arcata. In autunno le giovani coppie incidevano i propri nomi sui vecchi tronchi. In inverno, con la prima neve, le scritte scomparivano magicamente dalle cortecce. Ma se l’amore era destinato a durare, i due grandi alberi facevano risplendere i nomi dei due innamorati sulla nuvola di petali rosa che sbocciava in primavera.

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