Dal simulacro al sacro – 3

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L’attimo solenne della “famiglia riunita davanti alla tivù”, battezzato dalla sigletta pimpante di “Carosello”, è ormai un remoto ricordo dei dopocena italiani dell’evo industriale. Intanto la tivù, da un bel pezzo, non è più il solitario altare del salotto o del tinello. La tivù è un ensemble di video dispersi in varie stanze, dove ognuno consuma separatamente il suo menù di immagini. E poi la tempistica familiare, un tempo scandita dagli orari di ufficio e di fabbrica, uguali per tutti, è oggi la più varia e difforme: frammentaria e interinale, come il lavoro.


Al tempo di “Quelli della notte” non c’era più Carosello, ma non c’erano ancora i televisori sparsi per le stanze delle case, e il programma indusse al ritorno del convivio casereccio. Negli alberghi, invece, ogni camera aveva il suo, a colori, posizionato davanti al letto su un mobile o su una mensola e con esso si celebravano le solitudini di fine giornata delle trasferte per lavoro. Ma all’Hotel  Vesuvio questo cambiamento si percepì dal primo giorno: con il programma di Arbore ci fu un recupero della socializzazione davanti al teleschermo, nella sala tv che prima era sempre deserta. Commenti e risate venivano condivisi con un andirivieni del barman che riforniva la combriccola di drink e noccioline, e l’allegria procurata dalla trasmissione era potenziata dal piacere di stare insieme ad oltranza. Tre serate a settimana si cenava in fretta per essere puntuali davanti alla sigla e il centralino dell’hotel riceveva puntualmente l’ordine di non passare chiamate.

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